Euridice
di Carol Ann Duff (proposto da Paola Nasti)
Ragazze, ero morta e sepolta
nell'oltretomba, uno spettro,
un'ombra di quel che ero stata, fuori dal
tempo.
In quel luogo il linguaggio si fermava,
un punto nero, un buco nero
dove le parole erano destinate a finire.
Altroché se finivano,
le ultime parole,
famose o meno.
Ci stavo bene sottoterra.
Dunque immaginatemi laggiù,
inavvicianabile,
fuori dal mondo,
poi figuratevi la mia faccia in quel luogo
di Eterno Riposo,
nell'unico posto, direste, dove una ragazza
sarebbe al sicuro
da quel tipo d'uomo
che ti segue dappertutto
scrivendo poesie,
gironzolando impaziente
mentre gliele leggi,
che ti chiama la sua Musa,
e una volta ti ha tenuto il muso per un giorno
intero
perché gli hai fatto notare il suo debole per
i nomi astratti.
Provate a immaginarvi la mia faccia
quando sentii,
dei del cielo!
un toc-toc familiare alla porta della Morte.
Lui.
Il grosso O.
Più grande del normale.
Con la sua lira
e i suoi versi da intonare, e io ero il
premio.
Un tempo le cose erano diverse.
Per gli uomini, in fatto di poesia,
Grosso O era il migliore. Leggendario.
I risvolti di copertina dei suoi libri
sostenevano
che gli animali,
dall'armadillo alla zebra,
s'accalcavano al suo fianco quando cantava,
i pesci guizzavano fuori dal banco
al suono della sua voce,
persino le mute, aride pietre ai suoi piedi
piangevano minuscole lacrime d'argento.
Balle. (Non lo saprò io,
che ho battuto a macchina tutto quanto),
E se mi venisse restituito il tempo,
state tranquille che preferirei parlare per me
stessa
piuttosto che essere Cara, Tesoro, Dama Bruna,
Dea Bianca, ecc.
In realtà, ragazze, preferisco essere morta.
Ma gli dei sono come gli editori,
maschi, di solito,
e quello che certamente sapete della mia
storia
è il patto.
Orfeo avanzava tronfio declamando la sua roba.
Gli spettri esangui si sciolsero in lacrime.
Sisifo si sedette sulla pietra per la prima
volta in tanti anni.
A Tantalo fu concesso di farsi un paio di
birre.
La sottoscritta non credeva ai suoi orecchi
Volente o nolente,
lo dovevo seguire alla vita precedente-
Euridice, moglie di Orfeo -
e restare prigioniera delle sue immagini,
metafore, similitudini,
ottave e sestine, quartine e distici,
elegie, limerick, villanelle,
storie, miti ...
Gli avevano detto che non doveva guardare
indietro
né voltarsi,
ma camminare deciso verso l'alto,
con me alle sue calcagna,
fuori dall'Oltretomba
in quell'aria lassù che per me era il passato.
Lo avevano avvertito
uno sguardo e mi avrebbe perduta
per l'eternità.
Così camminammo, camminammo.
Non parlammo.
Ragazze, dimenticate quello che avete letto.
È andata così:
feci tutto quanto in mio potere
per farlo voltare.
Cosa dovevo fare, mi dicevo,
per fargli capire che tra noi era finita?
Ero morta. Deceduta.
Riposavo in pace. Defunta. Buonanima.
Da lungo tempo scaduta...
Allungai la mano
per toccarlo una volta
sul retro del collo.
Ti prego, fammi restare.
Ma la luce era già incupita dal porpora al
grigio.
Quanta fatica quella salita
dalla morte alla vita
e ad ogni passo
cercavo di farlo voltare.
Pensai di fregargli la poesia
da sotto il mantello,
quando infine mi venne l'ispirazione.
Mi fermai, in fibrillazione.
Era un metro davanti a me.
La mia voce tremava quando parlai -
Orfeo, la tua poesia è un capolavoro.
Fammela sentire ancora...
Sorrideva con modestia
quando si voltò,
quando si voltò e mi guardò.
Che altro?
Notai che non si era fatto la barba.
Gli feci ciao con la mano e me ne andai.
Quanto talento hanno i morti.
I vivi camminano ai bordi di un vasto lago
vicino al silenzio saggio, sommerso, dei
morti.
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