UMAFEMINITA’ o solo FEMINITA’?
di
Angela Giuffrida
Da
tempo sostengo che la parola “uomo” non sia adatta a designare l’intera specie “perché di fatto è la donna che, essendo
allo stesso tempo artefice della vita e della civiltà, comprende l’uomo così
nel corpo come nella mente, negli aspetti naturali come in quelli culturali”[1]. Nego
quindi sia la presunta uguaglianza che la complementarità dei due sessi convinta
che, se ”umanità gronda ingiustizia,
violenza e sangue da tutte le parti”, come dice giustamente Nadia Cavalera, non
sia possibile un’integrazione con feminità
per contribuire alla pari alla
“costruzione di una nuova era”.
Da
circa cinquemila anni c’è un’occupazione maschile delle comunità che ripete,
declinandolo in forme diverse, il medesimo, perverso copione. Ovunque il fine
ossessivamente e tenacemente perseguito è garantire agli uomini potere sulle
donne e, all’interno del genere maschile, assicurarlo ai più prepotenti. Non a
caso tutte le società androcratiche senza eccezioni sono organizzazioni della
dominanza che devono la possibilità di esistere all’uso della violenza, da cui
discende la cieca distruttività che annienta viventi, saccheggia e guasta la
natura, sperpera e polverizza le risorse, favorendo estesamente e capillarmente
la sofferenza e la morte, anziché la vita e la gioia di vivere.
Fare
dono della vita e sostenerla gratuitamente costituiscono invece la civile
quotidianità della stragrande maggioranza delle donne nel mondo. D’altronde la
vita e la gioia di vivere rappresentavano il centro propulsore delle antiche
società matristiche che hanno guidato il processo di civilizzazione della
specie[2]
e lo sono anche di quelle attuali che, sparse sul pianeta, resistono al
patriarcato autoritario[3].
In esse servire la vita è il mestiere
in assoluto più nobile che alimenta tutte le attività, ragion per cui la guerra
è esclusa - non vi sono tracce di armamenti e fortificazioni – e le relazioni sia
pubbliche che private si ispirano al
riconoscimento e al rispetto e sono dettate dall’empatia e dalla solidarietà.
Si
tratta, insomma, di comunità pacifiche e sostanzialmente egalitarie al
contrario di quelle maschiocentriche basate su prevaricazione e
gerarchizzazione, in cui il conflitto come regola di vita produce non solo la
guerra guerreggiata, che peraltro rappresenta la voce di spesa più cospicua
degli stati a livello planetario, ma anche un antagonismo esasperato, diffuso a
tutti gli ambiti della vita comunitaria. La prima e più odiosa guerra è infatti
la brutale oppressione delle donne, sempre in vigore malgrado la sua palese
irrazionalità dato che è diretta contro le madri della specie. Ma guerra è
anche l’ignobile politica del dominio, la meschina economia del profitto centrata
sull’universale sfruttamento e affamamento delle masse per foraggiare pochi
privilegiati, così come la dissennata predazione del pianeta che ci ospita e il
singolare disprezzo per i corpi biologici e le loro necessità[4].
Gli
uomini da viventi fanno paradossalmente la guerra alla vita. Il loro è un mondo morto abitato da cose. L’organismo non rientra tra le
categorie del pensiero filosofico quindi non compare in nessuna disciplina,
comprese la biologia e le neuroscienze le cui ricerche si focalizzano in genere
sugli elementi ultimi che costituiscono l’insieme, non sull’insieme stesso. In
tal modo il corpo svanisce come soggetto unitario, trasformandosi da fonte
primaria di conoscenza qual è in mero oggetto da conoscere.
Differenze così marcate tra i sistemi
matrifocale e patrifocale non possono che derivare da un modo diverso di
osservare il mondo e di interpretarlo da parte di donne e uomini. La teoria del
corpo pensante[5], considerando
la mente un processo creativo dell’organismo, attribuisce le differenti
impostazioni mentali femminile e maschile alla diversa esperienza che i due
sessi fanno nel campo della costruzione
e cura dei viventi. Il limitato ruolo svolto in tale campo è responsabile della
cecità del maschio nei riguardi della vita in quanto determina una riduzione
del suo orizzonte cognitivo, producendo quei meccanismi analitici e antinomici
che si traducono in scelte conflittuali e distruttive.
Privo delle straordinarie esperienze
che le donne fanno costruendo le proprie creature nel e con il proprio corpo,
l’uomo direziona lo sguardo fuori di sé, verso il mondo esterno di cui coglie
dati singoli e irrelati. In tal modo non si percepisce come vivente e manca,
come sopradetto, del concetto stesso di organismo. Non sa che la vita, la sua
stessa vita si regge su un intreccio insolubile di connessioni, perciò pratica
un cieco individualismo alla ricerca di una impossibile libertà senza vincoli e
di un empowerment personale dovuto all’indebolimento dell’altra/o, molte volte
alla sua eliminazione.
La stravagante assenza dell’organismo
dal sistema concettuale dominante è stata esplicitamente denunciata da Hans
Jonas[6]
e Andreas Weber[7] i quali, però, considerandola
una defaillance dell’intera specie, non hanno potuto comprenderla appieno e
indicare una concreta via d’uscita. Secondo me si resta nel campo della mera
utopia se si pensa che la vita possa essere rispettata e onorata se non la si
conosce. L’uomo sarà impossibilitato a pensare e attuare sistemi favorevoli
alla vita e alla crescita finché tali concetti non albergheranno nella sua
mente; fintantoché non si percepirà come organismo concreto affetto da ineludibili necessità fisiche
e psichiche si manterrà su un piano astratto, lontano dalla realtà vera dei
viventi; tenterà sempre di imbrigliarli entro rigidi schemi, imponendo loro un
controllo mortale, fino a quando non
capirà che il divenire continuo e la libera creatività sono ciò che permette
l’esistenza e la sopravvienza stesse degli individui e delle specie; continuerà
imperterrito a sostenere il colossale bluff che ha inscenato, “il cui esito è
quella ‘riduzione a niente della vita’ che, spinta alle sue estreme
conseguenze, conduce direttamente all’estinzione”[8].
La realtà è talmente complessa da
richiedere menti particolarmente aperte e flessibili come quelle femminili.
Autrici della vita della specie e responsabili della sua sopravvivenza, le
donne hanno sviluppato una forma mentis capace di contenere la ricchezza del
reale e di seguirne plasticamente il divenire, propensa a connettere e
costruire anziché separare e distruggere. Detto altrimenti hanno maturato una razionalità funzionale alla vita di
cui anche gli uomini, essendo viventi, hanno bisogno. E’ chiaro, però, che solo
il governo delle madri può garantire loro l’opportunità di fare esperienze atte
ad allargare l’orizzonte mentale tanto da contenere se stessi prima ancora
dell’altro.
Le speciali prerogative femminili che hanno
avviato il processo evolutivo della specie, costituendone la sostanza, possono
ora permetterci di uscire dal vicolo cieco in cui la cecità maschile ci ha
cacciato e di rimetterci finalmente in cammino. L’adozione del termine Feminità senza ulteriori aggiunte si
impone per forza propria.
[1] Angela
Giuffrida – Il corpo pensa. Umanità o Femminità? – Prospettiva Edizioni 2002 –
pag. 222
[2] Marija Gimbutas
– Il linguaggio della Dea – Neri Pozza Editore.
[3] Heide Goettner
Abendroth – Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo – Le
Civette di Venexia.
[4] Angela
Giuffrida – La razionalità femminile unico antidoto alla guerra – Bonaccorso
Editore – 2011 – pag. 11
[5] Angela
Giuffrida – Il corpo pensa. Op. cit.
[6] Hans Jonas - Organismo e libertà – Biblioteca Einaudi
2002
[7] Enlivenment:Towards a
Fundamental Shift in the Concepts of Nature, Culture, and Politics, by Andreas Weber published by the Heinrich
Boell Foundattion.
[8] Angela
Giuffrida – Il corpo pensa. Op. cit. pag. 216