29 settembre 2014

Umafeminità o solo Feminità, di Angela Giuffrida





UMAFEMINITA’ o solo FEMINITA’?

di Angela Giuffrida

Da tempo sostengo che la parola “uomo” non sia adatta a designare l’intera specie “perché di fatto è la donna che, essendo allo stesso tempo artefice della vita e della civiltà, comprende l’uomo così nel corpo come nella mente, negli aspetti naturali come in quelli culturali”[1]. Nego quindi sia la presunta uguaglianza che la complementarità dei due sessi convinta che, se ”umanità gronda ingiustizia, violenza e sangue da tutte le parti”, come dice giustamente Nadia Cavalera, non sia possibile un’integrazione con feminità per contribuire alla pari alla “costruzione di una nuova era”.  
Da circa cinquemila anni c’è un’occupazione maschile delle comunità che ripete, declinandolo in forme diverse, il medesimo, perverso copione. Ovunque il fine ossessivamente e tenacemente perseguito è garantire agli uomini potere sulle donne e, all’interno del genere maschile, assicurarlo ai più prepotenti. Non a caso tutte le società androcratiche senza eccezioni sono organizzazioni della dominanza che devono la possibilità di esistere all’uso della violenza, da cui discende la cieca distruttività che annienta viventi, saccheggia e guasta la natura, sperpera e polverizza le risorse, favorendo estesamente e capillarmente la sofferenza e la morte, anziché la vita e la gioia di vivere.
Fare dono della vita e sostenerla gratuitamente costituiscono invece la civile quotidianità della stragrande maggioranza delle donne nel mondo. D’altronde la vita e la gioia di vivere rappresentavano il centro propulsore delle antiche società matristiche che hanno guidato il processo di civilizzazione della specie[2] e lo sono anche di quelle attuali che, sparse sul pianeta, resistono al patriarcato autoritario[3]. In esse servire la vita è il mestiere in assoluto più nobile che alimenta tutte le attività, ragion per cui la guerra è esclusa - non vi sono tracce di armamenti e fortificazioni – e le relazioni sia pubbliche che private si ispirano  al riconoscimento e al rispetto e sono dettate dall’empatia e dalla solidarietà.  
Si tratta, insomma, di comunità pacifiche e sostanzialmente egalitarie al contrario di quelle maschiocentriche basate su prevaricazione e gerarchizzazione, in cui il conflitto come regola di vita produce non solo la guerra guerreggiata, che peraltro rappresenta la voce di spesa più cospicua degli stati a livello planetario, ma anche un antagonismo esasperato, diffuso a tutti gli ambiti della vita comunitaria. La prima e più odiosa guerra è infatti la brutale oppressione delle donne, sempre in vigore malgrado la sua palese irrazionalità dato che è diretta contro le madri della specie. Ma guerra è anche l’ignobile politica del dominio, la meschina economia del profitto centrata sull’universale sfruttamento e affamamento delle masse per foraggiare pochi privilegiati, così come la dissennata predazione del pianeta che ci ospita e il singolare disprezzo per i corpi biologici e le loro necessità[4].
Gli uomini da viventi fanno paradossalmente la guerra alla vita. Il loro è un mondo morto abitato da cose. L’organismo non rientra tra le categorie del pensiero filosofico quindi non compare in nessuna disciplina, comprese la biologia e le neuroscienze le cui ricerche si focalizzano in genere sugli elementi ultimi che costituiscono l’insieme, non sull’insieme stesso. In tal modo il corpo svanisce come soggetto unitario, trasformandosi da fonte primaria di conoscenza qual è in mero oggetto da conoscere.   
                                                               
Differenze così marcate tra i sistemi matrifocale e patrifocale non possono che derivare da un modo diverso di osservare il mondo e di interpretarlo da parte di donne e uomini. La teoria del corpo pensante[5], considerando la mente un processo creativo dell’organismo, attribuisce le differenti impostazioni mentali femminile e maschile alla diversa esperienza che i due sessi fanno nel campo  della costruzione e cura dei viventi. Il limitato ruolo svolto in tale campo è responsabile della cecità del maschio nei riguardi della vita in quanto determina una riduzione del suo orizzonte cognitivo, producendo quei meccanismi analitici e antinomici che si traducono in scelte conflittuali e distruttive.
Privo delle straordinarie esperienze che le donne fanno costruendo le proprie creature nel e con il proprio corpo, l’uomo direziona lo sguardo fuori di sé, verso il mondo esterno di cui coglie dati singoli e irrelati. In tal modo non si percepisce come vivente e manca, come sopradetto, del concetto stesso di organismo. Non sa che la vita, la sua stessa vita si regge su un intreccio insolubile di connessioni, perciò pratica un cieco individualismo alla ricerca di una impossibile libertà senza vincoli e di un empowerment personale dovuto all’indebolimento dell’altra/o, molte volte alla sua eliminazione.
La stravagante assenza dell’organismo dal sistema concettuale dominante è stata esplicitamente denunciata da Hans Jonas[6] e Andreas Weber[7] i quali, però, considerandola una defaillance dell’intera specie, non hanno potuto comprenderla appieno e indicare una concreta via d’uscita. Secondo me si resta nel campo della mera utopia se si pensa che la vita possa essere rispettata e onorata se non la si conosce. L’uomo sarà impossibilitato a pensare e attuare sistemi favorevoli alla vita e alla crescita finché tali concetti non albergheranno nella sua mente; fintantoché non si percepirà come organismo concreto affetto da ineludibili necessità fisiche e psichiche si manterrà su un piano astratto, lontano dalla realtà vera dei viventi; tenterà sempre di imbrigliarli entro rigidi schemi, imponendo loro un controllo mortale,  fino a quando non capirà che il divenire continuo e la libera creatività sono ciò che permette l’esistenza e la sopravvienza stesse degli individui e delle specie; continuerà imperterrito a sostenere il colossale bluff che ha inscenato, “il cui esito è quella ‘riduzione a niente della vita’ che, spinta alle sue estreme conseguenze, conduce direttamente all’estinzione”[8].
La realtà è talmente complessa da richiedere menti particolarmente aperte e flessibili come quelle femminili. Autrici della vita della specie e responsabili della sua sopravvivenza, le donne hanno sviluppato una forma mentis capace di contenere la ricchezza del reale e di seguirne plasticamente il divenire, propensa a connettere e costruire anziché separare e distruggere. Detto altrimenti hanno maturato una razionalità funzionale alla vita di cui anche gli uomini, essendo viventi, hanno bisogno. E’ chiaro, però, che solo il governo delle madri può garantire loro l’opportunità di fare esperienze atte ad allargare l’orizzonte mentale tanto da contenere se stessi prima ancora dell’altro.
Le speciali prerogative femminili che hanno avviato il processo evolutivo della specie, costituendone la sostanza, possono ora permetterci di uscire dal vicolo cieco in cui la cecità maschile ci ha cacciato e di rimetterci finalmente in cammino. L’adozione del termine Feminità senza ulteriori aggiunte si impone per forza propria.



[1] Angela Giuffrida – Il corpo pensa. Umanità o Femminità? – Prospettiva Edizioni 2002 – pag. 222
[2] Marija Gimbutas – Il linguaggio della Dea – Neri Pozza Editore.
[3] Heide Goettner Abendroth – Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo – Le Civette di Venexia.
[4] Angela Giuffrida – La razionalità femminile unico antidoto alla guerra – Bonaccorso Editore – 2011 – pag. 11
[5] Angela Giuffrida – Il corpo pensa. Op. cit.
[6] Hans Jonas  - Organismo e libertà – Biblioteca Einaudi 2002
[7] Enlivenment:Towards a Fundamental Shift in the Concepts of Nature, Culture, and Politics,  by Andreas Weber published by the Heinrich Boell Foundattion.
[8] Angela Giuffrida – Il corpo pensa. Op. cit. pag. 216

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