Ero in esilio ed esperte, mirabili
dalle
grandi ali aperte furono
le
sirene. Come figure della patria
il loro
soave canto e la lingua
madre.
Battei le strade rettilinee
sapendo
che laggiù oltre
c’era
la luce, ma la selva si
addensava
a volte come nebbia e
smarrimento.
Allora aggiusto
il
cammino, e spera la mia mente, il
cuore
rinchiuso. Solo tengo gli
abbracci
ai compagni della mia
tristezza,
e mi salva più volte
l’amore
provvisorio nel me-
riggio
rosa e il sapore fraterno
della
sera.
***
Poi
venne la notte, ritirati
I ponti
mobili in un sospetto di
assedio,
si spengono tutti i
fuochi
e basta il lattice bianco
del
pensiero. Allora il pane
scabro,
corti i passi e solo
talvolta
il dono parco di
un
verso.
***
Quando
venne il dolore, ormai
non
c’erano più germogli, la
pioggia
ha smesso di bagnare
il
campo, che fu a volte feconda
e a
volte pianto.
***
Scendono
le ginocchia fino
a
terra, il volto corrotto
tra le
mani. Afona la gola e ogni
bisbiglio
cerca di condurre
fuori
dalle ossa le croci
stanche
e il tremito
errante.
***
Quando
venne la pace, il
primo a
ritornare fu il
canto.
Cantai incredula nel
coro
della chiesa il salmo
che fu
l’alto canto distinto
della
mia giovinezza.
L’inno
saliente e perduto
trovò
una voce leggera in
fondo alle caverne. Non
era
ancora il cuore, ma fu
la voce
di Arianna fuori
dai
mostri.
***
Seconda
venne l’offerta, la casa
che si
apre forse prima del cuore
e
severa la veglia sulla mente che
guarda
vischiosa senza mani.
Allora
venne il sapore alato del
dono,
il vento leggero del tu e
riposano
i gravi, respirano le
spalle.
Ridiamo a cena con
la
tovaglia a fiori e i valigini di
verza
come la mamma.
2014
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